recensione:
Friedrich Nietzsche, La
volontà di potenza
Bompiani, Milano 1992,
pagg. 713, lire 40000.
Nel marzo del 1887, Friedrich Nietzsche trascorreva le ultime settimane del
suo soggiorno invernale a Nizza. Di lì a poco sarebbe partito per l’Engadina,
fuggendo la calura che avrebbe fiaccato ancor di più il suo corpo indebolito
dalla malattia e la luce accecante della Riviera, troppo violenta per i suoi
occhi gravemente sofferenti. Durante quei giorni di marzo, il 17, appuntò un
piano per un’opera divisa in quattro libri, che avrebbe dovuto avere per titolo
La volontà di potenza. Tentativo di una
tra svalutazione di tutti i valori.
Non era il primo appunto in cui veniva prefigurata un’opera che portasse
quel nome. La prima comparsa risale al 1885. La prima edizione di Al di là del
Bene e del Male, del luglio 1886. riporta di copertina l’annuncio della
prossima pubblicazione de La volontà di potenza. Trasvalutazione di tutti i
valori, e ne La genealogia della morale,
dell’anno successivo, il rinvio all’opera futura come luogo di indagine di
questioni decisive è inserito direttamente nel testo. In queste note, in altre
più ampie e in diversi brani dell’epistolario. Nietzsche proponeva ad
immaginare la fisionomia di un’opera a cui avrebbe affidato l’estensione della
portata teoretica della sua filosofia ed in cui avrebbe provato a compiere il
passaggio dalla critica distruttrice della tradizione filosofica d’occidente e
dall’analisi dell’immensa crisi che travagliava l’epoca ad una fase nuova,
realizzabile grazie appunto ad una trasvalutazione di tutti i valori.
Quell’opera non vide però mai la luce; ne rimangono 372 aforismi numerati,
sulla destinazione dei quali si sono a lungo interrogati gli esegeti. La stessa
operazione fondamentale che avrebbe dovuto costruire un ponte al di là del
nichilismo s’immerse nell’incompiuto e rimase un compito lasciato in eredità al
pensiero del nostro secolo. Si trattava dell’esigenza non di un semplice
ribaltamento delle tavole dei valori vigenti nel loro rovescio speculare, ma
dell’. inversione di valore » del valore stesso, ossia di un mutamento
qualitativo nel modo di concepire e praticare il valore. Le tavole non andavano
riscritte, ma infrante e rifondata.
Nietzsche non avrebbe sicuramente immaginalo che, dopo la sua morte, lo
schema del 17 marzo 1887 sarebbe diventato il piano su cui la sorella
Elisabeth, e il discepolo Peter Gast (pseudonimo di Heinnrich Kòselitz),
selezionando tematicamente una vastissima serie di appunti risalenti ad un
periodo compreso tra il 1883 e il 1888, avrebbero composto 1067 frammenti in un
volume pubblicato nel 1906 come La volontà di potenza. Non era comunque la
prima edizione postuma di testi nietzschiani, dal momento che nel 1901 sotto lo
stesso titolo era uscita una raccolta di 483 frammenti curata da Gast insieme
ad Ernst e August Horneffer, due collaboratori del Nietzsche-Archiv fondato da
Elisabeth Fòrster-Nietzsche per provvedere al grande patrimonio di scritti
lasciati dal fratello, ormai preda di una demenza irreversibile. A quelle
edizioni ne seguiranno altre, ognuna con un numero differente di brani
raccolti, ma quella di Gast ed Elisabeth rimase per molti versi la più
importante e fu scelta per l’edizione italiana, . tradotta da Angelo Treves e
pubblicata nel 1927 casa editrice
Monanni di Milano.
Dopo tanti anni di assenza dal panorama editoriale italiano, quella
versione de La volontà di potenza è stata ripubblicata da Bompiani dopo una
revisione della traduzione ad opera di Piero Kobau e con l’aggiunta di una
postfazione di un centinaio di pagine sulla Storia
della Volontà di potenza scritta da Maurizio Ferraris, già allievo di
Gianni Vattimo e ora professore di Estetica all’Università di Trieste.
Ferraris, già autore tra l’altro di un volume su Nietzsche e la filosofia
del Novecento, prova nel saggio a districarsi nell’intricatissimo nugolo di
questioni e polemiche sollevate dalla pubblicazione dell’opera postuma. Il nodo
polemico attorno al quale ruotano gran parte delle questioni ermeneutiche
intorno al testo è stato intrecciato dal destino che ebbe l’opera, spesso
considerata La principale responsabile del travisamento del pensiero
nietzscheano in senso nazista e del suo sfruttamento al fine dì conferire una
dignità filosofica alla politica culturale del Terzo Reich.
La prima questione che si pone è se La volontà di potenza sia considerabile
come un’opera di Nietzsche, o fino a che punto la si possa giudicare tale. Tra
i numerosissimi esegeti e le loro svariate lesi emergono, per il ruolo
fondamentale giocato nella storia delle edizioni nietzscheane, Giorgio Colli e
Mazzino Montinari, i quali hanno sottolineato il carattere di assoluta
arbitrarietà dell’operazione editoriale che portò il Nietzsche-Archiv a
pubblicare il volume sotto il nome del filosofo. Colli ha fatto notare come
Nietzsche, per comporre le sue opere, seguisse un metodo di rigida selezione e
rielaborazione di una massa incandescente di materiali accumulati col tempo, in
cui attraverso un « momento artistico » i brani appuntati divenivano aforismi e
andavano a comporre l’opera secondo una grandiosa costruzione « architettonica». Ne La volontà di
potenza non vi è nulla di tutto questo: invece della « numerazione
architettonica » degli aforismi, vi è solo una compilazione dì una serie di
abbozzi tematici di brani preparatori, di appunti indicativi sulla direzione da
percorrere, a volte in contraddizione gli uni con gli altri, citazioni da
Letture; insomma, un materiale ancora informe, a parte i 372 aforismi numerati.
Partendo da questo dato di tatto, l’edizione critica che Colli e Montinari
intrapresero all’inizio degli anni Sessanta per le edizioni Adelphi non prese
in considerazione la discussa opera, ma restituì per la prima volta nella sua
integralità, con rigore filologico e adeguato commento l’immensa messe dei «
frammenti postumi » nietzscheani,
ordinati cronologicamente.
Altri fattori si aggiungono in sede di valutazione della legittimità della
creazione e della pubblicazione de La volontà di potenza: le falsificazioni, le
omissioni, scelte ingiustificabili come il frazionamento di un lungo brano in
più pseudoaforismi; misfatti già denunciati all’epoca della prima edizione.
L’insieme dei problemi ermeneutici e filologici è comunque assai più complesso.
Qui l’interpretazione di Nietzsche appare un vero e proprio campo minato dove
ad ogni passo il piede corre il rischio di cadere in fallo, anche perché gli
esegeti hanno aggiunto valutazioni opposte sui singoli indizi alla difficoltà
di seguire i percorsi non univoci del pensiero nietzscheano.
Questi problemi fanno da sfondo alla polemica accesasi attorno alla recente
riedizione del volume e alle prospettive interpretative del suo curatore. Colli
imputava al concetto di volontà di potenza » di essere un’espressione solamente
essoterica, la cui elaborazione forniva una possibilità divulgativa al pensiero
nietzscheano, e procedeva a separarla dalla nozione di « trasvalutazione di
tutti i valori », per mostrare poi come questa venisse definitivamente
accantonata dal filosofo attraverso una serie di passi che culminano nella
cancellazione della formula dal frontespizio de L’Anticristo. Ferraris sostiene
invece che gli ultimi anni di Nietzsche furono in gran parte dedicati alla
meditazione del concetto di « volontà di potenza » indissolubilmente legato
alla» trasvalutazione di tutti i valori ». « Sotto questo punto di vista»,
scrive, « l’invito heideggeriano a leggere le opere di Nietzsche come La Metafisica di Aristotele acquisisce una
supplementare validità; Andronico, il ritrovatore delle opere esoteriche e, con
lo stesso gesto, l’occultatore delle essoteriche, non pubblicò in ordine
cronologico, matematico, creando la Metafisica
senza che mai Aristotele avesse pensato a quel titolo e concetto, nè mai
abbozzato un piano di organizzazione per un materiale che infatti è incoerente
e contraddittorio, di epoche differenti ecc. — proprio come il W[fille]z[ur]M[acht], di cui peraltro
Nietzsche ci ha lasciato così tanti piani e abbozzi, e così tante testimonianze
anche tra gli editi per quanto riguarda la valenza concettuale». Insomma,
nessuno si sognerebbe di demolire La volontà di potenza se non per la
convinzione che proprio questa opera, e non le altre, avesse « lavorato per il
Terzo Reich»; mentre in essa Ferraris non riconosce possibilità maggiori di
strumentalizzazione, o maggiori elementi di affinità col nazionalsocialismo,
rispetto alle altre opere nietzscheane.
Ferraris ridimensiona anche la portata delle manipolazioni di Elisabeth,
che al di là delle oggettive responsabilità avrebbe pagato a causa del
meccanismo della donna parafulmine che attira sudi sé l’aggressività suscitata
dall’uomo che le sta a fianco che proprio il fratello aveva diagnosticato. Così
ella sarebbe diventata la falsificatrice da incolpare per tutte le affermazioni
nietzscheane ritenute inaccettabili, la creatura demoniaca ». In realtà le
falsificazioni di Elisabeth furono operate nell’ambito dell’epistolario,
soprattutto per quanto sta alle lettere che erano state indirizzate a lei e
alla madre, e poi nella ricostruzione della biografia del fratello. Comunque.
ad avviso di Ferraris, ella non presentò La volontà di potenza come un’opera
definitiva, ma come un insieme di Studien
und Fragmente, e non vi appose nulla di suo, operando semmai smembramenti e
omissioni, sopprimendo brani di carattere violentemente anticristiano e alcuni
riferimenti crudamente polemici a Adolf Stòcker, predicatore alla corte degli
Hohenzollern, e al cognato, l’attivista antisemita Bernard Fòrster.
Fondamentale intenzione di Ferraris è di sottolineare come Elisabeth non
abbia aggiunto nulla che potesse in qualche modo accostare la filosofia del
fratello all’ideologia di un movimento politico come il nazionalsocialismo, che
nel 1906 era ancora di là da venire. Rimangono anzi immutate, nel testo
pubblicato, le critiche spietate della rozzezza e grevità dello spirito dei
tedeschi, dell’ottusità del nazionalismo — e del pangermanesimo in particolare
— e della politica degli Hohenzollern, In fine dei conti, se fosse possibile,
come Ferraris crede, riscontrare affinità essenziali tra il pensiero di Nietzsche
e il nazismo, ciò sarebbe addebitabile esclusivamente al filosofo.
Nessuno ha del resto contestato in sé l’idea della ripubblicazione de La
volontà di potenza, principalmente in considerazione del suo valore storico.
Sono state le divergenze interpretative rispetto all’edizione Colli-Montinari e
soprattutto l’opinione di Ferraris secondo cui tale edizione non avrebbe
fornito prospettive sostanzialmente innovatrici alla considerazione del
pensiero nietzscheano a provocare le vivaci reazioni del direttore editoriale
di Adelphi, Roberto Calasso, e di Franco Volpi, che per le stesse edizioni sta
curando la traduzione del Nietzsche di Heidegger. Ma ciò che ha veramente
avvelenato la polemica sono state le affermazioni di Ferrarìs che lasciano
trasparire una non remota vicinanza tra Nietzsche e il nazionalsocialismo. « La
storia politica», ha sostenuto il docente dell’ateneo triestino, ha mostrato,
per esempio, che le nozze di sangue tra Hitler e la Germania non erano dettate
nemmeno dalla razionalità dell’accrescimento dello spazio vitale, bensì da
qualcosa che si portava di là della vita. E per questo non si può dire che
Nietzsche, che pure non aveva visto il mondo in cui questa potenza si sarebbe
dispiegata, non l’avrebbe voluto e avrebbe pensato o richiesto tutt’altro. In
base ai dati di cui disponiamo tra editi e postumi, avrebbe forse potuto
volerlo e amarlo». Un argomento che sembra ripercorrere la teoria del
compimento (Erfullung) costruita
negli anni Trenta dagli ideologi della cosiddetta Nietzsche-Bewegung, secondo
la quale se Nietzsche avesse potuto vivere all’epoca del Terzo Reich, vi
avrebbe visto la realizzazione dei suoi sogni.
Fin dall’inizio della sua Storia della Volontà di potenza, riproponendo
interrogativi già formulati da Derrida, Ferraris si chiede il perchè del
richiamo delle istituzioni culturali nazionalsocialiste proprio a Nietzsche e
non ad un altro filosofo. La questione però viene lasciata maliziosamente in
sospeso, e nello sviluppo del saggio sembra risolversi, in modo un po’ sottinteso
e assai semplicistico, nell’opinione che ciò può essere accaduto per
l’intrinseca affinità del pensiero di Nietzsche con l’ideologia del movimento
hitleriano. Ciò che invece leggendo anche solo La volontà di potenza salta
immediatamente all’attenzione è l’estraneità della filosofia nietscheana
all’ideologia vòlkisch fondata sui
concetti di popolo e di razza, all’imperialismo pangermanista e ad ogni
idolatria dello Stato di origine autoritaria e conservatrice di cui il
nazionalsocialismo si è alimentato. Anche la semplice influenza diretta di
letture nietzscheane sulla formazione dell’ideologia nazionalsocialista pare da
escludere. Aldilà del celeberrimo episodio della visita di Hitler alla sede del
Nietzsche-Archiv, dove avrebbe ricevuto in regalo da Elisabeth uno dei bastoni
da passeggio del fratello, si può constatare come nel Mein Kampf non vi sia
alcun riferimento anche solo indiretto a Nietzsche; e lo stesso si rileva negli
altri scritti del Fuhrer, comprese le Conversazioni a tavola pubblicate nel
dopoguerra. Certo, alcuni personaggi del suo entourage testimoniano di conversazioni in cui Hitler avrebbe
tessuto l’elogio del filosofo, e ne rammentano le letture nietzscheane; ma
quello che forse è il più grande dei biografi del capo nazionalsocialista,
Joachim Fest, ci ricorda come la sua Weltansohauung
sia derivata dalla lettura di opuscoli di volgarizzazione scientitfica, da pamphlets razzisti e antisemiti, da
trattati di filosofia della storia, da opere sul germanesimo, sull’eugenetica e
sulle dottrine di Darwin. Alfred Rosenberg cita invece più dì una volta il nome
di Nietzsche ne Il mito del XX secolo; ma lo fa in un modo talmente
superficiale e periferico da indurre ad escludere una sua conoscenza
approfondita dei testi; e per giunta tenendo il filosofo a distanza, al di là
degli elogi di rito, per il carattere pericolosamente individualistico di molti
suoi argomenti.
Se l’incidenza concreta del pensiero nietzscheano sul movimento hitleriano
appare un’ipotesi difficilmente sostenibile, certa è invece l’utilizzazione a
fini politico-culturali della figura e dell’opera di Nietzsche operata dagli
apparati nazionalsocialisti dopo la conquista de] potere, tramite la citata
Nietzsche-Bewegung, di cui fu principale animatore Alfred Baeumler. Tale strumentalizzazione
deformante fu possibile poiché da un lato la critica della modernità, la
furiosa polemica anticristiana, il relativismo morale e epistemologico, il
concetto di volontà di potenza. e dall’altro le forme di un pensiero che si
esprime per immagini, figure, simboli, intuizioni abbaglianti e che tratta i
concetti astratti con maestria ma quasi mai con il rigido incedere dell’analisi
razionale dei trattati teoretici, favorivano la trasformazione di una filosofia
ostica, complessa e tutt’altro che univoca, in una Weltanschauung funzionale alla prassi esistenziale e politica del
nazionalsocialismo.
Mettendo da parte la contestatissima prospettiva interpretativa di
Ferraris, è da sottolineare nell’edizione Bompiani la mancanza di cura
filologica, di note che rendano chiari al lettore gli interventi di Gast e dì
Elisabeth, che non permettano confusioni tra il testo di Nietzsche e i brani
che egli annota da altri autori, e via dicendo. Così, se questa edizione va
accolta con favore poiché colma una lacuna
gravissima per la comprensione delta ricezione nietzscheana, l’insufficienza
dell’apparato critico ne fa un’occasione mancata.
Dilungandoci sul dibattito attorno a questa controversa opera, abbiamo
finito per tacere sul contenuto. Ci sia consentito limitarci ad accennare che
essa permette di addentrarsi in alcune questioni problematiche ancora
fondamentali per il nostro tempo, dove traspaiono compiti immani rimasti
inevasi dal pensiero di Nietzsche, che, come notava Ernst Junger ne “il cuore
avventuroso”, allo stesso modo delle imprese più ardue dell’arte rimangono
spesso nel mondo dell’incompiuto: a prosa della Volontà di potenza, un campo di battaglia del pensiero non ancora
sgombro di cadaveri, il relitto di una solitaria, tremenda responsabilità, cabina
di comando piena di chiavi gettate li da qualcuno che non ebbe più il tempo di
usarle ».
Paolo Villa
Diorama Letterario, numero 165, Febbraio 1993, pagine 19-22